È il 1870. A Verona, proprio accanto al maestoso anfiteatro romano che ancora oggi domina il centro della città, si respira un’aria densa di storia e di profumi. Mentre gli occhi dei passanti si soffermano sugli archi dell’Arena, in un angolo poco distante, un giovane sfreccia in bicicletta. Indossa una divisa bianca, imbrattata di farina: è un pasticciere. Si chiama Domenico Melegatti.
Quel ragazzo, che ogni mattina apre con energia il negozio di famiglia, vive immerso tra sacchi di zucchero, uova e vaniglia. È curioso, instancabile, pieno di idee. Ma ha un problema: suo padre, uomo di altri tempi, guida la pasticceria con rigore e rispetto assoluto per la tradizione. Domenico propone ricette nuove, tecniche originali, perfino confezioni innovative. Il padre spesso dice no, ma ogni tanto lo lascia sperimentare, concedendogli piccole vittorie che lo fanno innamorare ancora di più del mestiere.
Ogni giorno, finito il lavoro, Domenico si rifugia nel retro della bottega, una stanzetta senza finestre, il suo laboratorio segreto. È lì che prova, sbaglia, riprova. Non si accontenta. Ha un’ossessione: vuole creare un dolce natalizio tutto suo, qualcosa che non esista, che non si possa replicare a casa, che diventi tradizione… ma solo se acquistato nella sua pasticceria.
La scintilla arriva alla vigilia di Natale. Verona è in fermento. In pasticceria si parla spesso del “Levà“, un impasto semplice e ricco che le donne del posto preparano insieme la sera della vigilia. Domenico lo sente nominare decine di volte. A casa, quella sera, vede le sue parenti che lo stanno impastando. Lo guarda e pensa: “È troppo semplice. Possono farlo tutti. Ma se lo trasformassi in qualcosa di unico?”
Da quel momento, parte la sua personale battaglia. Domenico si chiude in laboratorio e inizia a lavorare su un’idea: creare un dolce alto, soffice, dorato, profumato. Parte dalla ricetta del Levà, ma alleggerisce l’impasto, toglie il burro in eccesso, bilancia gli zuccheri, prova stampi nuovi. Fallisce decine di volte. A volte si brucia, altre resta troppo basso o perde sapore. La pasticceria sembra un campo di battaglia, e lui un soldato stanco che si addormenta sui sacchi di farina.
Finché, una notte, qualcosa cambia. Ha aggiunto più uova, più burro, ha scelto uno stampo a stella per una cottura uniforme. Dopo 36 ore, apre il forno e davanti a lui c’è un dolce altissimo, leggero, con una crosta dorata perfetta. Ne prepara una decina, le sistema sotto la finestra per raffreddarle. Un garzone entra in cucina, attirato dal profumo, li guarda e dice: “Xè pan de oro!”. E in quel momento, Domenico capisce che ha trovato il nome: Pandoro.


Plinio il Vecchio descrive un dolce di consistenza dorata con fior di farina burro ed olio

Il successo è immediato. Tutta Verona parla del nuovo dolce. È il dolce delle feste, quello che si compra solo nella sua pasticceria, quello che si porta alle cene importanti. È bello, è buono, ed è impossibile da fare a casa. Serve tempo, esperienza e un forno speciale. Lievitazione di 10 ore, lavorazione di oltre 36. Un lavoro da artigiano.
Ma il successo porta anche imitazioni. Con l’avvicinarsi del Natale, Domenico scopre che altri pasticceri stanno copiando il suo pandoro. Non ci sta. Vuole dimostrare che il suo è l’unico vero. Pubblica allora un annuncio sulla Gazzetta di Verona: “Mille lire a chi riesce a replicare il Pandoro Melegatti”.
Il giorno della sfida arriva. Domenico è pronto, entra nel forno come un gladiatore. Ma nessuno si presenta. Nessuno osa sfidarlo. E quel giorno, tutto è chiaro: il pandoro è suo.


Per tutelare la sua invenzione, Domenico registra il nome e ottiene il brevetto ufficiale il 14 ottobre 1894. Nel documento si descrivono forma, ricetta e caratteristiche del pandoro. Da quel giorno, non è più solo un dolce: è un simbolo. E porta il nome di chi l’ha creato, con passione, fatica e visione: Domenico Melegatti.
